Sulle Imposte Patrimoniali
Pubblicato in origine su The Fielder, il 3 ottobre 2013.
Note grafiche di Synesis Capital.
Tanto s’è discusso di «patrimoniale sí, patrimoniale no», al momento della bagarre sull’IMU, che l’assordante rumore di fondo generatosi impediva di proporre un’analisi ragionata sul tema, a prescindere dall’IMU stessa. Qui si vuol provare a farlo, sommessamente ma compiutamente (e un po’ controcorrente).
Si dice giustamente, un po’ da tutte le parti, che per rimettere in moto l’Italia serva ridurre le imposte sul lavoro e sulle imprese. Vero, anche se tale affermazione si presta a diverse interpretazioni.
Alcune, giuste: ad esempio, che la pressione fiscale sulle imprese andrebbe ridotta poiché è un vincolo che frena lo sviluppo economico (oltre ad aver raggiunto un livello insostenibile); o che occorrerebbe agire sul cuneo fiscale sul lavoro, a favore d’un maggiore stipendio netto ai dipendenti, poiché s’incentiverebbero i consumi.
Alcune, meno: cioè che occorrerebbe ridurre il cuneo fiscale a favore delle imprese, riducendo quindi il costo del lavoro tout court, perché cosí s’incentiverebbero le imprese ad assumere di piú (in verità, si renderebbe piú competitivo produrre e usare personale, ma non in sé assumere di piú, poiché questo dipende soprattutto dalle prospettive economiche future dell’azienda).
Altre, per nulla: cioè la tesi secondo cui occorrerebbe ridurre la tassazione sulle imprese e il cuneo fiscale sul lavoro «spostandolo» sulle imposte patrimoniali, premiando cosí il merito (sic !).
Quest’ultima affermazione, in particolare, poggia su due presupposti del tutto discutibili: che il peso fiscale complessivo non debba diminuire (altrimenti non vi sarebbe alcun bisogno di sostituire un’imposta a un’altra), e che il patrimonio – anch’esso, come il reddito da cui s’origina – non sia espressione di «merito». Con ciò sovrapponendo (alcuni involontariamente, altri colpevolmente) il concetto di «patrimonio» a quello di «rendita».
Partiamo da quest’ultimo aspetto. Non serve scomodare Einaudi, quando diceva che l’imposta patrimoniale «è un premio per gli scialacquatori […]; è una multa per i lavoratori e i risparmiatori»; o quando affermava «che non si dà capitale senza reddito, né reddito senza capitale, e che non esiste una distinzione sostanziale fra imposta sul reddito e imposta sul capitale o sul patrimonio. L’una si converte automaticamente nell’altra e viceversa», poiché reddito e capitale sono due facce della stessa medaglia, e il secondo è la capitalizzazione nel tempo del primo. Sicché, se è vero (come principio generale) che la tassazione del reddito a una data aliquota corrisponde alla tassazione del patrimonio a un’aliquota inferiore e pari al tasso di capitalizzazione nel tempo di quel reddito, è altresí vero che i due tipi d’imposta sono tra loro interscambiabili. Ma è altrettanto vero che entrambe tassano la medesima base (la prima, il «reddito», che genera l’altra, il «patrimonio») in momenti distinti.
Quindi, arriviamo alla prima conclusione: non è con le patrimoniali che si «premia il merito» e s’incentivano l’impresa e il lavoro, poiché queste colpiscono ricchezza generata («merito», appunto, negli anni precedenti) e, oltretutto, già tassata (su questo torneremo in seguito).
Diverso è dire che occorrerebbe premiare il merito (redditi d’impresa e di lavoro) e incentivare l’allocazione dei patrimoni a tali fattispecie disincentivando fiscalmente le rendite dei patrimoni accumulati. Per intenderci, le rendite immobiliari e quelle finanziarie hanno da sempre, in Italia, un regime fiscale di favore. Vuoi per scelta, sulla finanza (con la bassa tassazione delle rendite finanziarie, addirittura nulla per i capital gain fino al 1998), in larga parte per la necessità d’alimentare il risparmio storicamente investito – fino agli anni ’90 – essenzialmente nei titoli di Stato; vuoi per scelta e tolleranza, sugl’immobili (l’esenzione da tassazione sui guadagni delle vendite d’immobili che avvengano dopo i cinque anni di possesso e la notevole diffusione del sommerso sugli affitti, il cui contrasto effettivo ha radici recenti), anche per via del notevole peso storico del comparto nella nostra economia. Solo recentemente, e timidamente, s’è messo mano alla tassazione dei due comparti, lasciando comunque un margine consistente di fiscalità di vantaggio (di fatto, 20% contro le aliquote IRPEF progressive, che arrivano al 43% senza contare le addizionali locali; o contro la tassazione delle imprese di capitali, pari al 31,4% d’aliquota nominale complessiva). Peraltro, tali trattamenti differenziati non esistono in molti altri Paesi.
Si dirà, a questo punto: «Ma le imposte patrimoniali ci sono anche negli altri Paesi!».
E anche: «Cosí, si colpisce il patrimonio formato coll’evasione».
Sulla prima affermazione, la risposta è: «Certo che sí». Non è il tipo d’imposta in sé il problema, ma la pressione tributaria complessiva.
Sulla seconda, la risposta è: «Vero, ma è il modo sbagliato per farlo». Né può entrare, in tal giudizio, la dimensione dei patrimoni, come se, escludendo i piú piccoli e applicandola solo ai piú grandi (senza mai definire un limite specifico), si fosse trovata la soluzione che la rende «giusta».
I due aspetti sono tra loro collegati, e devono essere trattati assieme. Per esser piú chiari, intanto, al variare dei Paesi che si vogliono comparare, varia anche il «perimetro imponibile», cioè la base di calcolo (chi solo immobiliare, chi anche finanziaria, chi globale senza esenzioni, ecc.); poi, ovviamente, varia anche l’aliquota applicata. A livello generale, comunque, dove c’è un’imposta patrimoniale globale, tendenzialmente c’è una tassazione molto piú bassa di quella italiana: è, ad esempio, il caso della Svizzera e dell’Olanda. Cioè, la tassazione patrimoniale è sí, in questi Paesi, una quota della tassazione complessiva, e consente di ridurre le aliquote fiscali sui redditi, ma in un sistema dove la pressione fiscale sul PIL è largamente inferiore alla nostra.
Si dirà: «Anche se noi abbiamo una pressione fiscale mostruosa (apparente: 44,6% del PIL; effettiva: 54%), intanto riequilibreremmo la tassazione su imprese e lavoro». Vero; ma, se cosí si facesse, si sottovaluterebbero due effetti d’estrema rilevanza, in tema di equità sostanziale (principio richiamato anche dalla nostra Costituzione) e di dinamica economica.
Il primo è un effetto distorsivo tra i contribuenti, poiché, stante l’alto tasso d’evasione presente in Italia (figlio dell’eccessiva tassazione complessiva), la distribuzione del carico fiscale non è omogenea sui singoli contribuenti, cosí da generare – se s’introducesse una patrimoniale – un effetto di maggiore carico proprio sui patrimoni regolarmente dichiarati al fisco. Infatti, un soggetto che abbia nel tempo pagato le imposte si vedrebbe tassare il patrimonio due volte, poiché i beni che lo compongono sono frutto di risparmio derivante da redditi già tassati. Inoltre, se la patrimoniale sostituisse una quota di tassazione sui redditi, ammesso e non concesso che sia a parità d’entrate complessive dello Stato, non si genererebbe necessariamente medesima parità in capo al singolo soggetto, proprio per effetto della diversa distribuzione del carico fiscale tra soggetti regolari e soggetti evasori.
Il secondo, invece, è un effetto dinamico: mentre la tassazione dei redditi generati d’anno in anno è tendenzialmente prociclica (varia al variare del reddito, in capo al singolo soggetto; varia tendenzialmente in modo quasi proporzionale al PIL, salvi gli effetti di scostamento dovuti alle tassazioni forfetarie e agli studi di settore), la tassazione dei patrimoni è tendenzialmente inelastica al variare del PIL, cosí da generare un effetto amplificatore delle fasi recessive al calare del PIL stesso.
Quindi, arriviamo alla seconda conclusione: non sarebbe corretto, da un punto di vista strutturale del prelievo, applicare un’imposta patrimoniale periodica sulla globalità dei beni posseduti, immobiliari e finanziari, qualora non si sia prima intervenuti tanto sul livello complessivo di pressione tributaria quanto sul tasso «endemico» d’evasione del nostro Paese.
Per inciso, quest’ultimo aspetto s’otterrebbe meglio con un sistema fiscale efficiente, non dispersivo e meno vorace, piuttosto che con gride manzoniane, tintinnio di manette e criminalizzazioni massmediatiche. Nonché con un sano controllo della spesa: già Adam Smith, sul finire del Settecento, affermava che “la fiducia dei cittadini nel buon uso delle imposte è il primo disincentivo all’evasione”.
In Italia, peraltro, già ci sono delle patrimoniali, che si sono sommate – anziché ridurla – alla pressione tributaria preesistente, e che non funzionano bene. Per esigenze di gettito, e mascherandone il fine ultimo, sono state introdotte la tassazione sulle operazioni finanziarie (Tobin Tax), l’IMU (ora sospesa e prossimamente accorpata nella nuova Service Tax), l’imposta sugl’immobili all’estero (IVIE), l’imposta di bollo sulle attività finanziarie, l’imposta sulle attività finanziarie all’estero (IVAFE). Le quali si sono aggiunte alle imposte sui trasferimenti dei patrimoni, cioè la medesima base imponibile, quali l’Imposta di Registro, l’Imposta Ipotecaria e Catastale, l’IVA, in alcuni casi, e l’Imposta sulle Successioni e sulle Donazioni, al supero delle soglie d’esenzione previste.
Quest’insieme di micro-imposte (in alcuni casi, nemmeno poi cosí «micro») è ben lungi dall’esser efficiente, e genera distorsioni censurabili in termini d’equità e d’applicazione dei princípi generali del diritto tributario. Ad esempio, per l’Imposta sulle Successioni lo Stato incassa meno di quanto spende per gestirla. La Tobin Tax s’è rivelata – e non eravamo in pochi ad averlo predetto – inferiore alle attese, per le entrate erariali, e ha generato un calo delle transazioni sul mercato finanziario italiano. L’Imposta di Bollo sulle attività finanziarie e l’IVAFE, che dovrebbero esser gemelle, s’applicano a soggetti diversi (imprese e privati, la prima; solo privati, la seconda) e a beni diversi (solo ad attività finanziarie, la prima; anche a quote societarie, la seconda), violando il principio di pari trattamento a parità di tipo d’investimento e a parità di soggetto investitore. Inoltre, gl’immobili (salvo le prime case, quest’anno) scontano l’IMU e l’IVIE, le loro rendite sono tassate e subiscono l’Imposta sulle Successioni, ma i capital gain sulle vendite di beni posseduti da almeno cinque anni sono esentati da tassazione. Infine, le attività finanziarie scontano Bollo e IVAFE, le rendite sono tassate (ma i titoli di Stato e le assicurazioni di meno), scontano l’Imposta sulle Successioni (ma i titoli di Stato e le assicurazioni sono esenti), mentre i capital gain sono tassati indipendentemente dalla durata del possesso.
Distorsioni censurabili, come detto, che hanno un impatto anche sull’efficienza dei mercati finanziari e immobiliari. Quadro sconsolante, per esser la «patria del diritto»!
Quindi, arriviamo alla terza conclusione: quand’anche si volesse raggrupparle in un’unica imposta patrimoniale periodica, occorrerebbe prima riallineare i soggetti cui applicarla, il perimetro dei beni su cui calcolarla (confermando esenzioni oggi esistenti o no) nonché i criteri di valutazione su cui effettuare il calcolo (cioè revisione del catasto, per gl’immobili, e decidere quale valorizzazione media, per le attività finanziarie). Peraltro, molto (ma non tutto) è stato fatto in questo senso proprio per applicare queste micro-imposte patrimoniali, che a detta di molti – e di chi scrive – sono servite al governo che le ha introdotte (Monti) come «prove tecniche di patrimoniale», da far adottare a un governo futuro.
Da ultimo, nonostante si sostenga qui con forza che la patrimoniale periodica è un rimedio peggiore del male che si vuol combattere, un’annotazione va fatta in tema d’un suo possibile uso «alternativo». Einaudi stesso affermò che l’imposta straordinaria può servire a dare entrate straordinarie (una tantum) in momenti straordinari d’una nazione, attribuendole però in questo caso piú un significato «etico» che fiscale (una sorta di «patto con lo Stato»), e ritenendola adatta a «promuovere la ricostruzione che nasce dalla speranza».
Allora eravamo nel 1946: v’erano condizioni straordinarie, e non si fece. Ora, invece…

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